E' un blog, uno spazio libero di passaggio, un lavoro a mani libere su cui lasciare la propria impronta. Un blog aperto a tutti coloro che vogliono lasciare una testimonianza di come sia loro vita da quando hanno ricevuto la diagnosi di sieropositività.

Questo non vuole essere un blog di informazione medica o di autoaiuto, ma uno spazio comune dove chiunque possa ritrovarsi attraverso le parole di altri, che come lui stanno vivendo la stessa esperienza.

I testi contribuiranno a dar vita ad uno spettacolo che racconta la vita, le emozioni, i pensieri di chi è HIV +.

Puoi commentare i testi già presenti o inviarci qualcosa di tuo a:


hoimparato@gmail.com.

mercoledì 22 dicembre 2010

Ritorno di Pasqua

C’erano cose che non capiva.
Più guardava fuori dal finestrino (oltre le nuvole) e più non capiva.
Più le montagne si facevano rosse, e gialle, e viola (prima di perdersi nella notte) e più non capiva.
Sì, era in aereo.
Sì, era stato bene.
Era durata poco la fuga, ma se la faceva bastare.
Una settimana per recuperare l’amore che aveva perduto l’autunno scorso all’aeroporto. “Ci vediamo presto!”: erano passati sei mesi.
Sì certo, avevano scopato. Sì, sì, se l’era proprio goduta.
Una settimana di ferie.
Lui era bello, pensava. Non era cambiato, neanche un po’.
Era il suo profumo che lo faceva impazzire. Ci sono, a volte, profumi che ti fanno annegare in ricordi lontani, che sanno di cannella e baci alla menta. Il suo dopobarba. Ecco, sì, lui era proprio come uno di quei ricordi al bacio-menta.
Aveva ancora le mutande che profumavano di lui. Le aveva annusate prima di decollare. Queste piccole perversioni gli rendevano interessante la vita.
Sorrideva, guardando fuori dal finestrino.
Cercava di sorridere.
Sarebbero passati altri sei mesi prima di rivederlo. O forse di più. Non erano innamorati.
C’era qualcosa che non capiva.
Oh sì, certo, lui sapeva della malattia. Lo aveva sempre saputo. Gli era bastato guardarlo negli occhi. Non era mai stato troppo sicuro di sé, le bugie non riusciva a raccontarle. Diventava rosso subito, pensava. Rosso-violaceo come la neve su quelle montagne. Di quel pallido rosso di cui le persone non si colorano più. Era fiero della sua ingenuità. Era sieropositivo per quello, dopotutto. Si era affidato a parole di cui non aveva riconosciuto la sfumatura rosso-bugiardo.
Lui, invece, non arrossiva mai. Non raccontava bugie, lui? Era bello per quello. Era forte. Non aveva paura. E pensare che era più piccolo di lui.
Si era fatta notte laggiù sulla terra.
Avevano fatto l’amore comunque. Ripetutamente. Era quasi impazzito. La sua malattia non lo preoccupava. Stiamo attenti, rilassati, diceva. Era tutto sicuro. Tutto predisposto. L’ultima notte prima di ripartire. Per tutta la notte. Il letto era diventato un campo di battaglia. Che profumava di uomini e di sesso. Eh sì, pensava, il sesso ha un odore tutto suo (e non di bacio-menta). Non più le coperte, non più le lenzuola. Neppure i cuscini. Solo i loro due corpi sfiniti e una finestra aperta dalla quale saliva ancora il vociare della strada, che non la finiva mai di urlare le notti sfrenate della capitale.
Per loro la città già non esisteva più. Non era mai esistita in quella notte da incorniciare (se il tempo si fosse fermato!). Alla fine (si erano decisi) avevano acceso un bastoncino d’incenso. Alla vaniglia. Era meglio così.
Più ci pensava e più gli angoli della sua bocca sfioravano il sorriso (cercava di sorridere).
Ma c’era qualcosa che continuava a non capire.
La città dove ora sarebbe atterrato (la sua città) aveva già acceso le sue luci di fata e lui non capiva quel senso di vuoto che tanto lo eccitava, il perché avrebbe preferito continuare a volare, con quel vuoto sotto i piedi dal quale non si sarebbe più separato.


Aspetta un attimo, dai! Non scendere!
Non abbassarti, cazzo! Stai su, per favore.
Il bacio-menta, il bacio-menta dai.
Non andar giù, non andar giù: mi fa male, lo sai.
Una finestra aperta. L’incenso alla vaniglia.
Non più lenzuola, non più.
Non atterrare cazzo!
Odio la terra. Amo l’aria e le nuvole.
Esplodi prima di scendere, cazzo!
Rosso candore, rosso candore, amor di verità.
Perché la neve non sanguina?
Voglio essere neve, per carità.
Perché le poesie sono sempre più brevi?
Voglio vivere in una poesia.
Ti prego, portami via, portami via.
Mutande al dopobarba, portatemi via.
Perché applaudite? Perché ?
Doveva esplodere cazzo. Un gabbiano in fiamme.
Ma guarda che carino che è lo stewart…
No, il bacio-menta, il bacio-menta dai.
Non ci siamo innamorati, no, non più non più.
Una notte, una notte lunga per tutta una vita.
Una finestra aperta per tutta una vita.
Portami via, portami via. Via con te.
Ma che carino che è lo stewart…
Bruciasse anche lui, bruciassimo tutti prima di posare i piedi per terra.
Insieme alla capitale, agli incensi, alle bugie, al bacio-menta.
Alle mutande, ai dopobarba, ai cioccolatini mai regalati.
Un angelo bruciato non sanguina più.
Non ci siamo innamorati, non più non più.

giovedì 2 dicembre 2010

Un minuto di silenzio.

Mi guarda negli occhi. Mi fissa (continua). Io sorrido (me l’ho ricordo, l’ho imparato). Paralizzato. La guardo arrossire mentre cerca di darsi (darmi?) una risposta. Il silenzio (mi) riempie (le riempie) la stanza, la storia. La mia storia.
Io ho un segreto.
L’ho scoperto (da tempo) or ora.  Anzi, no. Già. Lo sapevo. L’ho deciso io che fosse un segreto. Non sono riuscito a rispondere. Il problema. Il problema è questo.
Non so (non capisco) non voglio capire in che direzione sto andando. A quale velocità viaggia il mio pensiero. Di che colore sono i miei occhi, dove mi trovo, quanto grave sia la mia malattia. Vorrei un coltello per squarciarmi e mostrare a tutti la mia ferita. Una ferita d’aria, di vento e di sangue.
Io ho un segreto (non è successo per caso). Qualcuno ha scritto (chi me l’ha detto?) che tutti noi viviamo per (grazie a) un segreto. E noi viviamo (sì, viviamo), a patto di non svelarlo mai. Questo segreto (sì, ovvio). Fanculo.  A lui. Aveva ragione.
La guardo ancora negli occhi, questi occhi grandi e azzurri che si aspettano qualcosa da me.
Troia, penso. Perché, perché sei così stronza? Perché me lo chiedi così dolcemente? Non sai a cosa vai incontro? Non te ne importa? O per te sarebbe lo stesso?
Io ho un segreto.
Sono malato avrei voluto dirle. Due parole così. Lei avrebbe capito: avrebbe provato pietà per me.
Che schifo.
Il suo sguardo mi abbraccia. No, non cedo. Sto zitto.
Sono (mi sento) ferito. Non ha fatto nulla per ferirmi. Come al solito. Strano. Mi ferisco sempre lo stesso.
Ho un segreto che coltivo con cura, lo coccolo.
Spero non cresca.
Lei chiude gli occhi, chissà cos’ha capito.
Mi prende la mano.
Osserva le dita.
Le mie dita sono affusolate. Mi piace suonare il piano. Preferisco Chopin (grazie). Ho iniziato a suonare quand’ero bambino. Mentre suonavo guardavo mio fratello che giocava. Dormivamo insieme.
Lei mi guarda la mano. Me la accarezza. Profuma di vecchia la vecchia. Non sono cieco. Ha i capelli puliti. Non puzzano. Sono bianchi.
Mi sorride (di nuovo). Mi dice che vivrò a lungo. Le sussurro grazie.
E mi sento morire.
Se sbagli, donna, è perché te lo permetto (sappilo).